(Adnkronos Salute) - "Non è sufficiente avere i migliori ricercatori del mondo - osserva Maurizio Facheris, neurologo e direttore associato per i programmi di ricerca della Mjff - o disporre di eccellenti dati diagnostici e strumentazioni all’avanguardia. Se mancano le persone che offrono il loro tempo, campioni di sangue, saliva e tessuti o che sperimentano un farmaco su loro stessi, la ricerca clinica non potrebbe andare avanti: per raggiungere i propri obiettivi ha bisogno di persone, volontari sani e malati, che collaborino alla ricerca ad ogni livello, a studi di fase I - precisa - che valutano la tollerabilità e sicurezza dei farmaci prima di testarli su persone malate o sane, di fase II che verificano l’efficacia su una popolazione ristretta con la malattia di riferimento, e di fase III, simile alla fase II ma nel quale il campione di popolazione è più ampio".
"L’intento della Mjff - aggiunge ancora Facheris - è triplice: capire la malattia, ossia come funziona e da che cosa si genera il Parkinson, aspetti questi che non sono ancora del tutto noti; trovare cure che possano modificare il corso della malattia, fermarne o ridurre la progressione, o ancora in grado di portare a una regressione, migliorare la qualità di vita in pazienti portatori della malattia".
"Infatti se vi è una lievissima differenza (2-3 anni) nell’aspettativa di vita fra malati di Parkinson e non, ciò che cambia - sottolinea - è proprio la qualità della quotidianità. Nei primi 5 anni la malattia si controlla molto bene con la terapia, nei secondi 5 ci vuole più impegno da parte di un neurologo specializzato in Parkinson e parkinsonismi; dopo questo tempo subentrano complicanze di ordine motorio, cognitivo, psichiatrico, con una limitazione dell’autonomia, specie se la malattia perdura da oltre 15 anni, che rende la vita davvero difficile".